Il risveglio è un po’ “annebbiato”. Per colazione ci fanno dei pancake, nel mentre riusciamo a prenotare due notti a prezzo accettabile nell’Algarve. Porto la macchina in un parcheggio sotterraneo, e usciamo a passeggiare per la città. Incrociamo una manifestazione contro le banche e il sistema Europa che ci accompagnerà per grande parte della mattinata lungo il percorso che va da Praça Marquês de Pombal a Praça do Comércio.
Il clima è perfetto. Passiamo dalla Confeitaria Nacional per un ottimo pasteis de nata. La Rua Augusta è come me la ricordavo: luminosa, elegante, piena di gente nei bar e buskers. Lungo la via la droga più leggera che ti offrono è l’hashish. Ci fermiamo anche ad assaggiare un pasteis di bacalhau con queso alla Casa Portuguesa do Pastel de Bacalhau e ci dissetiamo con una limonata fresca di fronte alla cattedrale patriarcale di Santa Maria Maggiore nell’Alfama. Lisbona è la città degli scorci. Strade strette e edifici alti che ad ogni angolo riservano piazzette ordinate, vista del fiume e dei tetti della città, chiese, lunghi saliscendi con i tram gialli.
Raggiungiamo le porte del castello e ci fermiamo per una breve pausa al cafè Belmonte, dove un pianista improvvisato fa da colonna sonora. Siamo pieni di sporte e per tornare all’albergo usiamo un Tuk Tuk.
Finalmente riesco a mangiare un buon piatto di sarde alla griglia all’Antigo Primeiro de Maio, ma la serata si accende quando riusciamo a sederci ad un tavolino della Tasca do Chico per ascoltare il fado. Cantano due o tre canzoni alla volta, intervallati da pause, sempre artisti diversi. Notiamo da subito un paio di vecchietti, sull’ottantina che ci sembrano essere lì a godersela e a controllare che i clienti non si siedano al posto dei musicisti fra una pausa e l’altra e che non facciano rumore durante le esibizioni.
Ma uno dei due “umarell“, quello con lo sguardo perso nel vuoto e una stampella per camminare, ci riserva delle sorprese. Lo vediamo scambiarsi quattro chiacchiere con giovani ragazze ai tavoli (probabilmente per fare autografi). Poi, alla fine di una pausa, si alza, abbandona la stampella, cambia espressione e inizia a cantare. Ed è con lui che capisco lo spirito del Fado. Non ha un gran voce, non è quello che importa, ma è immerso nelle storie che racconta e mi porta con lui, fra la musica della chitarra e del cavaquinho, anche se non capisco nulla di quello che dice. E’ come se volesse mettere tutte le impressioni della sua vita nelle note che escono soavi. Canta l’abisso che c’è dentro di lui e, alla fine, parte un lungo applauso.
Usciamo contenti, il Bairro Alto è ancora pieno di gente, ma siamo stracciati. Torneremo un’altra volta.