
Matusa e Santa Madre sono insopportabili. Corrono di qua e di là, portano cose, riempiono scatole. Non li capisco. Si agitano per cosa? A quale scopo? Quando tutto quello che ti serve è dentro un piatto? E un bicchiere. Quando basta respirare e lanciare cose, romperle e poi buttare ciò che avanza nel cestino giusto?
Matusa dice che è l’ultima volta che parla al posto mio, che è stanco di immedesimarsi nella psiche di un bambino di un’età che non arriva a essere un numero pari. Che vuole trovare le sue “proprie” parole, non sforzarsi di avere un lessico primordiale, ancestrale, essenziale.
Poverino. Non arriverà mai a capire.
Io invece ho capito che andiamo a trovare Orlando, credo un amico del vecchio. Un altro impiastro.
Ma non importa.
Che sia latte o che sia uova, oggi ho imparato a dire sì e no chiaramente, con la testa. Il mondo è mio, senza parole. Posso affermare e negare con chiara e lucida precisione. Posso affermare che mi piace il melone e che la pesca noce è buona da dare ai pescegatti.
Come un chirurgo che opera sapientemente usando gli arnesi del mestiere.
Mi chiamano “il mimo”. Posso raccontare un’epopea solo con i gesti. A stento so dire mamma e papà. “Gna” può significare nonna, tata, acqua, passeggino, porta e prosopopea, all’occorrenza, dipende dal contesto. E sta nella tua “propria” intelligenza capirlo.
Il linguaggio è un espediente comunicativo sopravvalutato.
Pare che domani si parta. Destinazione Orlando.
Tenetevi forte.