
Dopo aver acquistato le paste al forno, nel supermarket vicino alla stazione, prendiamo il treno per Copenaghen. Tempo previsto di arrivo 43 minuti. Sembra un regionale, ferma quasi tutte le stazioni, ma ha la wifi. Ci mangiamo le paste tra una fermata e l’altra. Il controllore del treno sembra Lou Ferrigno.
Arriviamo alla stazione centrale di Copenaghen in perfetto orario. E così, dopo oltre tremila chilometri dalla partenza, arriviamo alla meta che ci eravamo prefissati.
Camminiamo per il centro. Sfruttiamo le vie dello shopping per acquistare, in un negozio che vende prodotti Fabriano, un nuovo taccuino per gli appunti di viaggio a Frenci, perché ieri gliel’ho perso. L’aveva affidato a me, ma non lo trovo più. Probabilmente rispunterà fuori a fine vacanza.
Decidiamo da farci subito un giro in barca per visitare la città da una prospettiva differente. E infatti è così. Sono anche alla distanza giusta per fotografarla come si deve. Purtroppo inizia a coprirsi il cielo di nuvole e a piovigginare.
Nonostante il maltempo, la città mi affascina subito. Non tanto dal punto di vista estetico, anche se ha scorci davvero interessanti, ma per la molteplicità di visioni che offre, per l’integrazione che si respira, per l’inclusione del diverso, perché è abbracciata dal mare, per le case all’interno delle imbarcazioni o per gli amici che si bevono una birra sui tetti di queste, per i fiori, anche in questa città ovunque, per le persone che girano con le biciclette, per i mille ponti, per i parchi e per la natura che contamina ogni luogo, per l’attenzione all’ambiente e alla sostenibilità espressa in innumerevoli azioni quotidiane, per la continua ricerca di far convivere passato, presente e futuro in un unica dimensione. Mi ricorda vagamente anche Amsterdam, per alcuni degli aspetti sopra citati.
Dopo il piacevole tour in batana (termine tecnico della mia zona che indica una imbarcazione piatta, configurazione dello scafo necessaria per passare sotto i bassissimi ponti della capitale danese) ci fermiamo a mangiare in un luogo davvero particolare: un locale su diversi livelli, con varie aree differenti e centinaia di giochi da tavolo sparsi su tutte le pareti. I tavoli sono pieni di giocatori incalliti. Il Bastard Cafè ci fa sentire a casa. Ale e Frenci si passano il tempo a giocare a Uno, mentre attendono l’arrivo dei piatti, io e Richi girovaghiamo ad esplorare il territorio, anche i bagni.
Dopo pranzo andiamo al parco Tivoli. Facciamo il biglietto per poter andare in giostra. Tivoli è una via di mezzo fra un parco cittadino e un luna park. Ha l’eleganza di un giardino curato, ma è pieno di attrazioni, punti ristoro, giostre, ristoranti, bar. Il fatto è che tutto questo pandemonio è totalmente immerso nella natura, laghetti e fontane comprese. Non ti sembra di essere ad un parco giochi, ma all’interno dei giardini reali, solo che mentre passeggi senti le urla dei visitatori che stanno scendendo in picchiata con le montagne russe. Alzi lo sguardo per capire dove sono, ma si mimetizzano. Non li vedi. C’è così tanta natura che una vespa mi punge al collo.
Restiamo al parco Tivoli fino alle 22. I pargoli vogliono continuare ad oltranza, ma gli facciamo notare che le giostre sono chiuse. Ancora una volta abbiamo fatto chiusura. Un volta chiudevo (e riaprivo, con i miei fedeli compagni di scorribande notturne) i bar, adesso chiudo i parchi giochi.
Ci dirigiamo alla stazione, che fortunatamente è a meno di un centinaio di metri da Tivoli e cerchiamo il treno per Humlebæk, il paesino sul mare che dista circa quaranta chilometri dalla capitale e che ci ospita. Anche questo controllore del treno sembra un culturista. Probabilmente è una cosa studiata per disincentivare i furbetti che tentano di prendere il treno senza biglietto.
Richi si addormenta sulle mie gambe Giornata piena.
DAL DIARIO DI FRENCI

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