Ritorno ad Ortigia

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Apro la finestra, le nuvole impediscono al sole di scaldarmi. Gli impegni professionali sono stati compiuti e Ale è libera. Facciamo colazione al solito bar e poi decidiamo di andare a visitare Palazzolo Acreide, un piccolo comune a nord-ovest di Noto. Fu una colonia Siracusana fondata nel settimo secolo avanti Cristo. Bei tempi.

Percorriamo il Val di Noto; la strada segue i profili orografici dei Monti Iblei, fra antichi casali, carrubi e ulivi secolari, mandorli, campi sterminati, muretti a secco. Ci attendono all’ingresso della città venditori ambulanti di lumache. La temperatura si è abbassata. Il cielo grigio e le bancarelle che stanno per essere allestite lungo il Corso principale e nella piazza della chiesa, non ce la fanno apprezzare come ci aspettavamo. E poi Ortigia si insinua nelle nostre menti, come il canto delle sirene in quella di Ulisse. Veniteeee, veniteeee.

Ci prendiamo un cappuccino e riaccendiamo il motore, puntando il navigatore sull’isola di Siracusa. A mezzogiorno passeggiamo nelle viuzze della bella città, accarezzati da un sole caldo e da un vento frizzante. Sono inebriato dall’odore di salsedine, di porto, di frittura di pesce e sono coccolato dalla musica che arriva dagli angoli delle strade e dai locali.

Per quanto possa sembrare piccola, Ortigia sa sempre sorprenderti con nuove piazzette, vicoli adornati di piante e alberi, resti di antiche civiltà, spruzzi di mare che bagnano i marciapiedi lungo la litoranea. Se ami il mare, ami Ortigia. Qui i marinai approdavano e trascorrevano tempi di pace, amore ed ebbrezza spensierata: tutto il necessario per poter affrontare il mare solitario di nuovo.

Facciamo un aperitivo nell’unico locale immerso fra piante e fiori: vengo divorato da zanzare piccolissime. Nano zanzare. Pranziamo bene da Al Mazarì e poi passeggiamo senza meta, cercando di ritrovare, spesso senza successo, ricordi di quattro anni fa, quando eravamo “giovini”.

Al tramonto torniamo a Noto e ci ubriachiamo di chiacchiere frivole e discorsi metafisici, fra un pani cunzatu e un calice di rosso, un biancomangiare e un moscato di Noto.

Mentre scrivo dei bambini urlano e giocano per la strada, dovrei avvisarli che la musica è finita e i suonatori devono tornare nei loro camerini.

Mi viene in mente la Sera dei Miracoli di Lucio: “Una sera così strana e profonda che lo dice anche la radio, anzi la manda in onda, tanto nera da sporcare le lenzuola, è l’ora dei miracoli che mi confonde. Mi sembra di sentire il rumore di una nave sulle onde”.

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