Mi sveglio e penso che mancano solo 25 km all’arrivo. Il cielo è nuvoloso. Le caviglie vanno leggermente meglio, la vescica mi fa male. Prendo una pastiglia preventiva come mi ero promesso. Voglio arrivare sereno.
Iniziamo con una camminata molto rilassata, lungo il cammino francese, incrociato proprio a partire dalla nostra pensione. Non abbiamo motivo di correre, siamo in dirittura di arrivo.
Mi ascolto l’ultimo album di Fabi, scaricato ieri sera, grazie alla wifi dell’alloggio. Sono felice che la sua nuova musica si associ come per imprinting ai ricordi di questo cammino, perché lui mi ha insegnato a camminare meglio, lungo la mia strada. E penso che il cammino ti insegna proprio che la vita è “una somma di piccole cose”.
La musica mi rilassa, torno a fare un passo dopo l’altro senza il desiderio di arrivare e mi commuovo un po’, perché sono dove volevo essere. Proprio lì. Tra gli alberi di eucalipto, il fango, il profumo di legna bruciata, i sassi, i rigagnoli di acqua, il bestiame, le fattorie, il cielo plumbeo, qualche goccia di pioggia, l’aria fresca. La mia casa dietro la schiena e i miei passi doloranti. Costanti. E penso che è bello averlo percorso con Marisa e Valentino proprio in questo momento della mia vita.
Mano a mano che ci avviciniamo alla meta si moltiplicano i segnali, i pellegrini e i “buen camino”. Qualche raggio di sole pallido passa fra le fronde bagnate.
Alle 11.30 facciamo una breve pausa. Mancano 17 km. Il dolore inizia a darmi tregua e diventa un leggero fastidio. Camminare si trasforma da croce a delizia ed esce il sole.
Poco dopo incrociamo sul cammino una vecchia conoscenza. Cinzia, arrivata per il week end, ci appare come una pellegrina controcorrente. Un salmone. Riuniti, andiamo a pranzare per l’ennesima volta insieme al pulpo.
Ripartiamo, passiamo il monte do Gozo da cui i pellegrini scrutavano per la prima volta, lungo il cammino, la cattedrale in lontananza.
Mancano 5 km e tornano i miei dolori. Sopporto.
Alle 17.15 siamo alle porte della città. Esce il sole dopo aver giocato a nascondino per un po’.
Alla Porta do Camino c’è un concerto di estrema sinistra a favore dei rifugiati.
Costeggiamo finalmente la cattedrale: sotto il portico un busker intona arie liriche in spagnolo. Ricordo quando passavo per quello stesso punto nel 2002. Allora avevo raggiunto la città in macchina, in vacanza con gli amici, diretti in Portogallo, e guardavo con curiosità tutte quelle persone con bastoni e zaini, stanche, zoppe, ricoperte di conchiglie. La curiosità, probabilmente, è l’anticamera del destino.
Siamo arrivati. Ho percorso 223 km in 8 giorni (e li ho sentiti tutti), ma la cattedrale è tutta un cantiere. Fortunatamente non sono partito per venirla a vedere. Sono più stanco che soddisfatto. L’arrivo non è il motivo per cui si intraprende il Cammino. Vale come tutti gli altri momenti: è particolare, perché lo chiude, ma non è l’obiettivo, almeno nel mio caso. Il motivo è solo andare. Svegliarsi ogni giorno pronti a ripartire, in ogni caso. Arrivare ogni giorno in un luogo differente. E arrivarci a piedi. Andare avanti. Nonostante tutto. È questo il primo insegnamento. Il cammino è metafora della strada che stiamo percorrendo, in formato ridotto. Non è bello o brutto. Non è piacevole o doloroso. Non è solitario o in compagnia. Non è in salita o in discesa. Non è soleggiato o piovoso. Non è faticoso o rilassante. È tutto. Come la vita. Se lo accogli ti mostra il punto di vista che cerchi, quello che ti permette di realizzarti, se resisti e vuoi solo arrivare dove credi di dover arrivare lo detesti. Come la vita.
Visitiamo la cattedrale mentre una fila lunghissima di credenti attende di abbracciare la statua dell’apostolo.
Dopo la cena al ristorante, che raggiungo con grande dolore e fatica, vado a dormire a scrocco nella camera prenotata dalla mia sorellina.
Mi sento il re dei pellegrini.